Comunicazione e inclusività: quando è reale e quando è solo marketing?

llustrazione concettuale che confronta purpose washing e inclusività autentica: due borse della spesa, una lucida e vuota con falsa diversità, l’altra piena di simboli inclusivi reali. Stile minimal moderno.

Comunicazione e inclusività: quando è reale e quando è solo marketing?

Oggi “inclusività” è un termine onnipresente nelle campagne di brand, nei claim pubblicitari, negli slogan social. Diversità, equità, sostenibilità, gender equality sono diventati valori da comunicare. Ma quanto di tutto ciò è genuino, e quanto è marketing — o addirittura “purpose washing”? In questo articolo esploriamo il confine, con dati, esempi, rischi e possibili buone pratiche.

Dati e studi recenti

  • Secondo una ricerca di UN Women del settembre 2024 che ha analizzato 392 brand in 58 paesi, la pubblicità inclusiva si associa a migliori risultati commerciali e un maggior valore percepito del brandunwomen.org
  • Uno studio pubblicato su Harvard Business Review“How Inclusive Brands Fuel Growth” (2024), mostra che i marchi che abbracciano paradigmi inclusivi ottengono non solo consenso ma anche crescita nel mercato, più fedeltà, e maggior capacità di entrare in nuovi segmenti di pubblico. Harvard Business Review
  • Tuttavia, non tutto è oro ciò che luccica: la ricerca “Purpose-washing” (King’s College London, Meaning and Purpose Network) indica che c’è una crescente percezione di ambiguità tra cosa un brand dice e cosa realmente fa. Quando la comunicazione inclusiva è usata solo come segnale simbolico (una campagna, una pubblicità, una collaborazione) ma non è radicata nella cultura aziendale o nei prodotti, il rischio è quello del backlash (danno reputazionale) più che di beneficio reale. King’s College London
  • Uno studio sperimentale ha trovato che il “woke-washing” (cioè fare dichiarazioni sociali attive o inclusive in modo astratto o superficiale) riduce la credibilità del brand rispetto a brand che mantengono un purpose autentico con coerenza. ScienceDirect+1

Esempi positivi reali vs casi di marketing superficiale

Esempi di inclusività ben fatta

  • Fenty Beauty (Rihanna): fin dalla sua fondazione ha enfatizzato la varietà di tonalità della pelle offrendo decine di sfumature di fondotinta, per includere donne che spesso restano escluse dalle palette standard. refuelagency.com
  • Mattel: nel 2024 ha annunciato che un’ampia parte dei suoi giochi diventeranno accessibili anche ai daltonici (aggiungendo simboli, pattern, accorgimenti visivi), collaborando con esperti del settore. Un esempio di prodotto che cambia concretamente sulla base di un’esigenza reale di un gruppo spesso trascurato. Blog HubSpot
  • Savage X Fenty: come riportato di recente, mantiene l’inclusività come parte centrale del suo branding, non solo come espediente pubblicitario. È un brand che «ridefinisce cosa significa inclusivo nel settore della lingerie». Axios

Esempi dove l’inclusività sembra più marketing che sostanza

  • Dove – Campaign for Real Beauty: spesso citata come esempio virtuoso per l’immagine delle donne “reali”. Tuttavia sono emerse critiche: ad esempio che le immagini usate venivano ritoccate, che le modelle erano perlopiù giovani/di pelle chiara, o che altre attività del gruppo proprietario (Unilever) non sempre riflettevano appieno i valori di equità generazionale, sostenibilità, impatto ambientale. Wikipedia+1
  • Greenwashing / Social Washing in generale: uno studio di Kantar che ha coinvolto 42 settori in 33 paesi ha trovato che il 52% delle persone dichiara di aver visto informazioni false o fuorvianti riguardo alle azioni sostenibili dei brand — questo include anche messaggi di tipo inclusivo. kantar.com
  • Campagne che usano solo “having a token person” (una persona di una minoranza) come rappresentanza, senza cambiare strutture interne, politiche, supply chain, dimensione dei prodotti/offerte, o senza consultare realmente le comunità coinvolte. (Ad esempio, sfilate con modelle curvy ma niente taglie curvy disponibili nei negozi) — questo tipo di disconnessione è stato denunciato diverse volte dagli addetti ai lavori. The Wildcat Tribune+2bolderagency.com+2

Perché il rischio di “purpose washing” è serio

  • Reputazione compromessa: quando il pubblico percepisce che un brand comunica valori ma non li mette in pratica, la fiducia cala.
  • Backlash social: le comunità rappresentate o gli stakeholder interni (dipendenti, collaboratori) tendono a criticare aspramente queste incoerenze.
  • Perdita di opportunità a lungo termine: l’inclusione superficiale può generare vendite o attenzione momentanea, ma non la fedeltà, la retention, il valore percepito nel lungo termine.
  • Aspettative più alte: la generazione Z e i Millennials richiedono trasparenza, consistenza, azioni concrete. Non basta il messaggio: vogliono vedere i prodotti, le pratiche aziendali, il coinvolgimento reale.

Come capire se un brand è “autenticamente inclusivo”

Ecco alcuni criteri per valutare se stiamo davanti a un impegno genuino o a puro marketing:

Criterio

Domanda da porsi

Coerenza interna

L’inclusività è presente anche nei processi aziendali, nella selezione del personale, nella struttura dei prodotti/offerte, non solo nelle campagne?

Partecipazione delle comunità interessate

Sono coinvolte le persone che il brand “rappresenta” (es. persone con disabilità, minoranze etniche, LGBTQ+, persone curvy)? Sono ricercate opinioni autentiche, feedback?

Misurabilità & trasparenza

Il brand pubblica dati reali: numeri di diversità, percorsi di miglioramento, impatti, obiettivi concreti?

Long-term commitment

È un impegno isolato o una strategia che si rinnova/cresce nel tempo? (Per esempio Savage X Fenty, o le iniziative di Mattel)

Allineamento tra valori dichiarati e pratiche concrete

Es. se dici di essere sostenibile, hai pratiche di produzione, scelta dei materiali, supply chain coerenti; se dici diversità, offri taglie varie, scegli modelli di diversi tipi, rispetti culture diverse nelle comunicazioni.

Come comunicare inclusività con autenticità

  1. Audit interno: guardare “dentro” al cliente (o all’agenzia stessa): che diversità avete nel team? Nei creativi? Nei collaboratori? Qual è l’offerta di prodotti/servizi che tenga conto di diverse esigenze (es. abilità, taglie, culture)?
  2. Coinvolgimento reale: collaborare con persone della comunità rappresentata, consultare, fare test, focus group. Evitare lo stereotipo, la rappresentazione monodimensionale.
  3. Trasparenza dei risultati: non basta dire “facciamo inclusività”. Renderlo visibile: quanti dipendenti diversi, quali iniziative, quali impatti. Pubblicare dati, raccontare successi e difficoltà.
  4. Campagne come parte di un sistema più ampio: le campagne devono essere sostenute da politiche interne, prodotti effettivi, diversificazione tangibile. Evitare la discrepanza tra ciò che si comunica e ciò che è.
  5. Feedback e adattamento costante: ascoltare le critiche, misurare sentiment, correggere, imparare. Essere pronti a rivedere lancio, immagini, messaggi se feriscono o esclusivizzano.

Conclusione

Inclusività non è più un optional: è diventata una leva strategica, una aspettativa sociale e un fattore di competitività. Ma come tutte le leve, se usata solo a metà, può rivelarsi controproducente.

Il vero valore della comunicazione inclusiva sta nella congruenza fra parole e fatti, nella partecipazione, nella trasparenza, nella responsabilità. Solo così il messaggio diventa credibile, genera fiducia e costruisce reputazione duratura.

llustrazione concettuale che confronta purpose washing e inclusività autentica: due borse della spesa, una lucida e vuota con falsa diversità, l’altra piena di simboli inclusivi reali. Stile minimal moderno.
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